NARRARE LA VECCHIAIA

Ho scelto di raccontare un momento della mia storia personale per introdurre un tema comune a tutti, la “vecchiaia”, quella che sarà la nostra e quella, più attuale, dei nostri cari. Ecco La mia narrazione della “vecchiaia”:

“La testa reclinata sulle mani che impugnano il bastone, appoggiate al tavolo in mezzo alla sala. La televisione che va continuamente, con gli anziani che le stanno davanti o guardano fuori dalla finestra, ognuno chiuso nel suo bozzolo dimenticato, con i ricordi sbiaditi, che a volte riaffiorano in un turbinio che ricorda foglie portate dal vento, non si sa da dove e dove vadano. Lo vedo, mi si stringe il cuore, è così fragile, indifeso, lui che era così tanto per me e che adesso è qualcosa che sta a mezzo tra il fardello di incombenze e quello dei sensi di colpa. Lo chiamo, alza la testa, gli si illumina lo sguardo ed è terribile quello sguardo, perché mi colpisce come una lama affilata. Respiro, inspiro aria buona, espiro senso di morte, vado verso di lui, mi sorride, mi chino e gli do un bacio. “Babbo, come va? Ci prendiamo un caffeino?” Lo prendiamo il caffeino, con il sapore piacevole della complicità; un caffè vero, con il suo carico di caffeina, fino a poco tempo fa vietato, ma così piacevole adesso! Un po’ perché è buono, un po’ perché è una piccola violazione al normale “orzino” passato dalla mensa.

Poi arrivano i ricordi, mescolati alle lacrime, la mamma, andata via così all’improvviso (“proprio non me lo doveva fare!”), a 90 anni, dopo mesi passati a letto. Mi sa che, stremata, ha deciso di andarsene, in silenzio, chiudendo gli occhi dopo la visita della dottoressa che le aveva detto di mangiare, altrimenti non sarebbe guarita!Cerco di estraniarmi, guardarlo, fare conto di essere da qualche altra parte, ritrovare la mia biblioteca personale, la mia base sicura, il mio migliore interlocutore. Trovo solo due occhi stanchi, a tratti ancora vivaci, ma spesso persi, un ricercare parole, rincorrere pensieri e ricordi, e sento tanta pena, tanto dolore, che mi soffoca.

E arriva il momento di andare, con un senso di distacco e anche di sollievo: “allora babbuccio, ci vediamo presto”, e mi avvio, con il cuore stretto in una morsa, le lacrime prossime ad uscire ed una grande tristezza addosso.”

Tristezza, malinconia, nostalgia, tutto ha un sapore amaro dolciastro, come di qualcosa che stona, in tutti sensi, perché non è in linea, in sintonia, e perché dà un senso di stordimento. Babbo è vivo, ma da tempo ha iniziato lentamente a morire dentro di me. Non lui, non il suo corpo, sta morendo la sua anima, la sua testa, il suo cervello, la sua attenzione, come dice Francesco Guccini in una canzone di che ascoltai anni fa, immaginando che un giorno sarei arrivata a viverla. Eccola, adesso ci sono:

E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi
che non sono più quei fantastici giorni all’asilo
di giochi, di amici e se ti guardi attorno non scorgi
le cose consuete, ma un vago e indistinto profilo

E un giorno cammini per strada e ad un tratto comprendi
che non sei la stessa che andava al mattino alla scuola,
che il mondo là fuori t’aspetta e tu quasi ti arrendi
capendo che a battito a battito è l’età che s’invola

E tuo padre ti sembra più vecchio e ogni giorno si fa più lontano,
non racconta più favole e ormai non ti prende per mano,
sembra che non capisca i tuoi sogni sempre tesi fra realtà e sperare
e sospesi fra voglie alternate di andare e restare
di andare e restare

E un giorno ripensi alla casa e non è più la stessa
in cui lento il tempo sciupavi quand’eri bambina,
in cui ogni oggetto era un simbolo ed una promessa
di cose incredibili e di caffellatte in cucina

E la stanza coi poster sul muro ed i dischi graffiati
persi in mezzo ai tuoi libri e a regali che neanche ricordi,
sembra quasi il racconto di tanti momenti passati
come il piano studiato e lasciato anni fa su due accordi

E tuo padre ti sembra annoiato e ogni volta si fa più distratto,
non inventa più giochi e con te sta perdendo il contatto…
E tua madre lontana e presente sui tuoi sogni ha da fare e da dire,
ma può darsi non riesca a sapere che sogni gestire
che sogni gestire

Poi un giorno in un libro o in un bar si farà tutto chiaro,
capirai che altra gente si è fatta le stesse domande,
che non c’è solo il dolce ad attenderti, ma molto d’amaro
e non è senza un prezzo salato diventare grande

I tuoi dischi, i tuoi poster saranno per sempre scordati,
lascerai sorridendo svanire i tuoi miti felici
come oggetti di bimba, lontani ed impolverati,
troverai nuove strade, altri scopi ed avrai nuovi amici

Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po’ folle, un po’ saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: “Io ho sempre tentato,
io ho sempre tentato.”

Sono diventata grande, mamma è morta, babbo è sempre più lontano e, nello stesso tempo, sempre più presente e richiedente, non tanto perché pretenda ma perché ha bisogno di essere accudito, come un bambino. Ma non dimentico il mio vissuto con lui, i suoi insegnamenti, quel carico incredibile di ideali, valori, convinzioni, molti dei quali sono rimasti e diventati miei, gli altri, andati, non assimilabili al mio modo di vedere la vita e le cose. Ed è qui che sento verissime le parole di Guccini:

Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po’ folle, un po’ saggio nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio, la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato, la paura e il coraggio di dire “Io ho sempre tentato, io sempre tentato.”

Si, ho sempre tentato, soprattutto all’inizio, di essere come lui, poi di essere io, solo io, scegliendo che tipo di persona diventare, coraggiosa, temeraria, che “butta il cuore oltre l’ostacolo”. Questa e tante altre sono caratteristiche sue che ho scelto di fare mie, condividendo quelle piccole cose, quelle emozioni, quei pensieri che continuano a farmi compagnia e a rendermi fiera ed orgogliosa di essere sua figlia, di avere imparato tanto da lui, soprattutto ad avere cura di chi ha bisogno. Adesso è lui in quella posizione e siamo io e mio fratello a prenderlo per mano, per aiutarlo, sorreggerlo mentre cammina, appoggiandosi a noi e al suo bastone. Adesso siamo noi i suoi punti di riferimento, ci cerca quando ha bisogno, ed io sento che il mio babbo, colui che mi ha sempre sostenuta, non c’è più, adesso sono solo io, con i miei anni, la mia vita, i miei affetti. Lui c’è ma non c’è. E questo è terribile, è una sorta di lutto senza morto perché c’è già una perdita ed una mancanza, una distanza, un allontanamento. C’è la nostalgia, ci sono i ricordi, il dolore sempre pronto ad invadere la mia vita. Fortunatamente mi salva, come mi ha sempre salvato, l’ironia, imparata proprio da lui, da babbo, e a volte riusciamo anche a farlo insieme, ridendo, in un istante magico di spensieratezza.

 Ecco, questo stralcio di vita personale dà l’idea di ciò che tutti, prima o poi, vivremo. Fare i conti con la vecchiaia, con il deperimento fisico e mentale, spaventa, tanto che si tende a non pensarci, illudendoci di un’eterna giovinezza che ci viene abbondantemente propinata attraverso rimedi miracolosi, nuove proteine trovate per non invecchiare, pannolini che eliminano odori (soprattutto delle donne!!!), strumenti per ringiovanire, tonificare, elasticizzare, insomma, tutto per non invecchiare! E invece credo proprio che con la vecchiaia ci dobbiamo fare i conti, guardandola bene ogni volta che scopriamo una ruga, un cedimento, un assottigliamento, una rugosità pervasiva, una non tonicità, indice di anni che passano. Ma, come diceva il mio professore di Psicologia, ogni ruga è un’esperienza, ogni cicatrice un ricordo, tanto che il nostro viso e il nostro corpo raccontano la nostra storia. E allora mi dico che il cedimento è dato da tutto ciò che ho sostenuto, dagli assalti della vita, da tutte le volte che ho fatto dei balzi in avanti per non soccombere, dai pesi portati. Si, da tutto questo, ma anche dal peso degli zaini e delle valigie dei miei viaggi, dalle mie esperienze di curiosità, dai chili di affetto che mi sono piovuti addosso, dagli abbracci, dai bimbi, dai cani e dai gatti portati in collo, dai traslochi delle mie case, dal buttare e dal riprendere. Insomma, anche i miei cedimenti parlano di me e della mia vita!

Troviamo, allora, un modo di fare pace con rughe e cedimenti, prevenendo, curando, migliorando, dove si può, nel nostro modo, tutto nostro e personale; per il resto, accettiamo che gli anni passano e che quella temuta vecchiaia porta anche saggezza, sensazione di poter lasciare, abbandonare vecchi modi, trovandone, inventandone, sperimentandone di nuovi. E, per tutte le donne “anziane”, due parole, non mie, ma significative, le ultime di uno scritto che si intitola “Il cappello color porpora”:

“A tre anni Lei si guarda e vede una Regina.
A otto anni Lei si guarda e vede Cenerentola.

A quindici anni Lei si guarda e vede una Brutta sorella (“mamma non posso andare a scuola con questo aspetto qui”).

A vent’anni Lei si guarda e si vede “troppo grassa/troppo magra, troppo bassa/troppo alta, con i capelli troppo lisci/troppo arricciati”, ma decide che uscirà di casa lo stesso.

A trent’anni Lei si guarda e si vede “troppo grassa/troppo magra, troppo bassa/troppo alta, con i capelli troppo lisci/troppo arricciati”, ma decide che non ha tempo di risistemarsi e che uscirà di casa lo stesso.
A quarant’anni Lei si guarda e si vede “troppo grassa/troppo magra,troppo bassa/troppo alta, con i capelli troppo lisci/troppo arricciati”, ma dice: “almeno sono pulita”, ed esce di casa lo stesso.

A cinquant’anni Lei si guarda e si vede “esistere” e se ne va dovunque abbia voglia di andare.
A sessant’anni Lei si guarda e ricorda tutte le persone che non possono più nemmeno guardarsi allo specchio. Esce di casa e conquista il mondo.

A settant’anni Lei si guarda e vede saggezza, capacità di ridere e saper vivere, esce e si gode la vita.

A ottant’anni. Non perde tempo a guardarsi. Si mette in testa un cappello color porpora, esce per divertirsi con il mondo.

 
Dedicata a tutte le donne, con l’augurio di poter indossare, un giorno, quel cappello color porpora.”

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